Provocatoriamente scrivo questo editoriale il giorno successivo. Perché trovo superficiale e anche ipocrita occuparsi solo per una manciata di giorni di quello che si potrebbe o dovrebbe fare per tutelare le vittime, o troppo tardi, quando accade l’ennesima tragedia.
C’è una battaglia che anche la Repubblica di San Marino deve combattere con urgenza, una lotta che non si combatte (solo) a colpi di decreti o protocolli, ma affrontando una cultura insidiosa e radicata. Parlarne può apparire scontato, ma in una società che ostenta di possedere alti principi morali, l’indifferenza diventa complicità, e l’omertà di fronte a certi abusi fa di ognuno lo specchio in cui non ci si può più permettere di non guardare. Il Paese, troppo spesso, è scivolato su una china pericolosa, trincerandosi dietro una patina di quieto vivere e nascondendo così una verità scomoda: la violenza contro le donne non è un tema esterno, confinato al mondo fuori dai nostri confini; è una presenza oscura e silenziosa, nonostante le vittime camminino ogni giorno accanto a noi.
I dati parlano chiaro e, per quanto possiamo tendere a considerarci diversi dalle realtà più grandi e anonime, le dinamiche che innescano l’abuso, la prepotenza e la violenza sono purtroppo le medesime. Il fatto che San Marino abbia dimensioni ridotte non rende il fenomeno meno devastante; al contrario, una piccola comunità dovrebbe farci riflettere ancora più profondamente sul ruolo che ha ciascuno nell’alimentare o combattere questa battaglia.
Le iniziative legislative, per quanto puntuali ed essenziali, rischiano di rimanere prive di forza se non accompagnate da una volontà comune e condivisa di combattere apertamente il paradigma del dominio e della sopraffazione. A cosa serve un sistema normativo se manca una vera coscienza collettiva che accetti e riconosca che ogni episodio di violenza contro una donna, verbale o fisica, è un attacco al cuore della stessa comunità? Non basta invocare giustizia quando un caso clamoroso balza agli onori della cronaca; serve una coscienza che non tema di puntare il dito contro ogni atteggiamento sessista, di denunciare ogni singolo episodio che incrina la dignità femminile. L’educazione ha un ruolo centrale in tutto ciò, ma non può fermarsi nei banchi di scuola; deve entrare nelle case, diventare parte della quotidianità di ognuno. Parlare apertamente di rispetto, sensibilizzare sui danni della malattia del possesso e del controllo sulle donne è una responsabilità che ogni cittadino dovrebbe sentire come propria.
Ed è qui che il nostro atteggiamento deve cambiare radicalmente. Ogni volta che voltiamo lo sguardo dall’altra parte, che minimizziamo l’offesa, o peggio, la giustifichiamo, magari sul posto di lavoro, ci rendiamo colpevoli, tanto quanto chi realizza l’abuso. Non è più il momento di sostenere che non esistano soluzioni; le soluzioni ci sono, e devono partire dalla scelta consapevole di non restare passivi, di non lasciare spazio alla violenza. Perché, in fondo, ogni volta che una donna viene umiliata, picchiata o messa a tacere, è un’intera società che abdica alla propria dignità.
Ricordiamolo bene: il silenzio, da solo, uccide più della violenza stessa.
David Oddone
(La Serenissima)