Il suicidio di Shirel Golan il giorno del suo compleanno è solo l’ultimo tragico atto di una storia che non dovrebbe mai essere dimenticata, una storia che racconta di come le vittime siano state ammazzate non una, ma due volte. La prima dai terroristi di Hamas, con l’inumana violenza di un attacco che ha spezzato centinaia di vite, e la seconda volta da uno Stato che non ha saputo prendersi cura di chi è rimasto, lasciandoli soli con il proprio dolore. Shirel, 22 anni, sopravvissuta al massacro del Festival Nova, non ha retto al peso di quella fuga disperata e al trauma di aver visto i suoi compagni morire. La sua storia è diventata il simbolo di una sofferenza più grande, che colpisce non solo Israele ma ogni angolo del mondo in cui il terrorismo si insinua. La violenza, brutale e cieca, non si ferma al momento dell’attacco. I suoi segni restano, spesso invisibili, ma altrettanto letali. I superstiti come Shirel non sono mai davvero salvi: i corpi forse appaiono ancora intatti, ma le loro anime portano ferite che, senza il giusto sostegno, possono rivelarsi fatali.
Ma gli omicidi non stanno solo da una parte. Se il dolore di Shirel e degli altri sopravvissuti israeliani è immenso, lo è anche quello dei palestinesi che vivono sotto la costante minaccia dei conflitti, che vedono i propri figli morire sotto i bombardamenti o perdere la vita nella disperazione delle strade di Gaza. I bambini palestinesi sono martiri innocenti di una brutalità che non conosce giustizia. È facile cadere nell’errore di pensare che esistano morti di serie A e morti di serie B, ma la verità è che da entrambe le parti del conflitto, a pagare il prezzo più alto sono sempre gli innocenti, la gente comune, coloro che non hanno scelto la guerra ma la subiscono. Il vero problema non è il popolo, che soffre e muore senza distinzione di bandiera, ma le leadership che continuano a fomentare l’odio. Le politiche di Benjamin Netanyahu, così come quelle di Hamas, hanno spinto intere popolazioni in un abisso di violenza senza uscita. Non è la determinazione degli israeliani o dei palestinesi, a mantenere vivo il conflitto, ma l’incapacità o la mancanza di volontà di chi li governa a trovare soluzioni di pace durature.
In tale disperato scenario, dove il caos e la crudeltà sembra essere l’unica legge, si leva l’appello dei Capitani Reggenti, Francesca Civerchia e Dalibor Riccardi. L’auspicio, espresso nel recente intervento istituzionale, dovrebbe risuonare ancora più forte. “Riteniamo che le iniziative intraprese nel precedente semestre reggenziale – per promuovere il ruolo di San Marino quale luogo di mediazione per la pace e per favorire il dialogo interculturale e interreligioso – debbano essere portate avanti con tenacia e impegno”. Le parole delle Loro Eccellenze richiamano la necessità di un impegno globale che sappia abbattere i muri dell’incomprensione e costruire ponti di pace. Quel ponte può e deve sorgere nella più Antica Repubblica del mondo. Il Consiglio, unito, dia a questo progetto, anzi a questa missione, la precedenza su tutto il resto. È solo attraverso il dialogo che possiamo sperare di impedire che si aprano nuove, profonde, cicatrici.
David Oddone
(La Serenissima)